MOSTRA VIRTUALE

Archivio di Stato di Torino
5-8 giugno 2020

Dal 5 all’8 giugno 2020 a Torino torna Archivissima, il Festival degli Archivi, quattro giorni per scoprire, raccontare, approfondire i patrimoni culturali, le collezioni, la storia degli Archivi. Il Festival 2020, ideato e sostenuto da Promemoria, è organizzato dall’Associazione culturale Archivissima in collaborazione con il Polo del ‘900. L’edizione 2020 sarà dedicata alle donne protagoniste di storie di cambiamento e trasformazione.

L’Archivio di Stato di Torino partecipa al Festival
organizzando una mostra virtuale per raccontare come le donne in tutte le epoche abbiano contribuito alla costruzione dello Stato,
conquistando col tempo nuovi spazi di espressione e di azione. Questo processo è testimoniato sia nei documenti prodotti dall’amministrazione pubblica (prima e dopo l’Unità, in epoca monarchica e repubblicana), sia nelle carte di soggetti privati che l’Archivio accoglie in ragione della loro importanza storica e civile.

La mostra, il cui titolo si ispira al libro di Nuto Revelli pubblicato nel 1985, accompagna il visitatore alla scoperta delle vicende di donne di potere e donne di cultura, operaie e studiose , attraverso le riproduzioni di pergamene, manoscritti, fotografie conservati in Archivio.

Alcuni racconti sono diventati dei podcast ascoltabili liberamente, che resteranno a disposizione del pubblico anche oltre la fine del Festival, brevi narrazioni delle vite, “leggermente fuori fuoco”, di queste protagoniste della nostra storia.

Dame che governano

I documenti  danno voce a quattro donne di condizione non ordinaria – erano principesse di casa Savoia – che hanno potuto vivere la politica in modo attivo, per decenni o anche solo per un attimo. Quattro dame che – coerentemente con la visione del mondo in cui erano cresciute, una visione di lunga durata dal Medioevo al pieno Ottocento – accettano ciò che ci si aspetta da loro: un matrimonio che serve a rafforzare i rapporti tra dinastie, e deve generare un erede per garantire la continuità della stirpe. Quattro dame che, in un contesto sfavorevole, possono comunque esprimere una loro personalità o esercitare un ruolo politico in prima persona. Due di esse si ritrovano in una condizione insolita, riservata alle ereditiere o alle vedove: l’esercizio della sovranità, in prima persona o come reggenti per mariti assenti o figli minorenni, in situazioni precarie e tra pesanti contestazioni. Altre esercitano un ascendente sui mariti e orientano le loro scelte politiche, assumono il ruolo di mecenati, costruendo reti di idee e rapporti culturali, o si dedicano alla beneficienza, uno dei pochi campi in cui viene loro riconosciuta una certa autonomia.

Isabella di Villehardouin
La donazione di Isabella e del marito Filippo
di Savoia
alla figlia Margherita
24 dicembre 1303
(Materie politiche per rapporto all’interno, Principi del sangue diversi, m. 3/1, f. 1)

Siamo alla vigilia di Natale del 1303, nel castello di Beauvoir (principato d’Acaia, poco a nord dell’antica Olimpia). Il nome greco del castello è Pontikon. I principi d’Acaia, Filippo di Savoia, signore di Piemonte e sua moglie Isabella di Villehardouin, erede del principato, donano alla figlia Margherita, bambina di poco più di un anno, i castelli e le castellanie di Caritène (Karytaina) e Bossolet (Araklovon) con le loro giurisdizioni. Per autenticare il documento e il suo prezioso contenuto, i coniugi vi appongono il loro sigillo di cera rossa e chiedono al cancelliere del principato, Beniamino, di fare altrettanto. Il testo del documento è in francese medievale.

Il primo sigillo è quello di Filippo, raffigurato come cavaliere. Ma quello che ci interessa è il sigillo di Isabella, che l’immagine rara e altamente simbolica – non certo un ritratto realistico come lo intendiamo noi – di una donna che esercita un’autorità, e ci dice in segni qual è l’essenza del suo potere. La principessa è in piedi, raffigurata con il capo coperto da un velo, mentre tiene con la sinistra un ramo fiorito, con la destra il cordone che le chiude il mantello; il tutto entro un’edicola gotica, con merli e guglie, che evoca un palazzo. Ai lati dell’edicola, in alto, si vedono due scudi che portano una croce ancorata, lo stemma dei Villehardouin. Tutt’intorno corre la legenda, abbreviata e lacunosa: S(igillum) Ysabelle principisse Achaye. Sigillo di Isabella principessa d’Acaia.

Il sigillo è uno dei mezzi più importanti di autenticazione dei documenti medievali. Proprio in conseguenza di quest’importanza giuridica, e di una lunga tradizione simbolica che risale all’antichità, il sigillo diventa nel Medioevo uno dei principali segni dell’autorità. Dopo il Mille, il suo uso si estende dai re a duchi, conti, vescovi, successivamente ai poteri minori e al resto della società, e questo fenomeno, giuridico e sociale insieme, si incrocia con il suo aspetto figurativo: il sigillo medievale è un microcosmo di cultura, affascinante quanto fragile, affidato per lo più alla cera.

In questo contesto, rare sono le donne che esercitano direttamente un’autorità, o i propri diritti signorili e patrimoniali, e che appongono un loro sigillo ai documenti. Mentre i loro padri e mariti scelgono di farsi raffigurare come cavalieri – se conti o signori – le dame del XIII e XIV secolo possono farsi effigiare in due modi. Nel primo, esse sono a cavallo, nell’atto di cacciare, con il falcone: una pratica esclusiva dell’aristocrazia, evocativa di uno stile di vita cortese. Nel secondo, sono in piedi, eventualmente sotto un’edicola monumentale che può evocare un palazzo. La forma di questi sigilli, adattata alla figura, è a navetta. La dama ha il mantello spesso foderato di vaio (pelliccia di pregio riservata ai potenti, formata da pelli alterne tratte dal dorso e dal ventre dello scoiattolo siberiano); in mano tiene un ramo fiorito che richiama simbolicamente la sua funzione di sposa feconda che assicura la continuità del lignaggio.

Isabella di Villehardouin è l’erede della sua stirpe, e porta con sé un dominio e un titolo instabili ma ambìti, legati all’Acaia (o Morea). Un principato latino d’Oltremare, fondato in Grecia un secolo prima da cavalieri francesi della quarta Crociata, a danno di Bisanzio, importando una struttura signorile e amministrativa occidentale. Dalla fine del Duecento l’Acaia è entrata nell’orbita degli Angiò, re di Napoli, e nel 1289 è pervenuta Isabella in quanto ultima della sua dinastia. I re di Napoli, insieme ai baroni francesi dell’Acaia, sono i registi dei suoi tre matrimoni: il primo a otto anni, con Filippo di Taranto, figlio di Carlo I d’Angiò; il secondo, a ventisei con Fiorenzo di Hainaut, un cadetto divenuto connestabile del regno di Napoli; il terzo nel 1301, a 38 anni, con un altro cavaliere in cerca di corone, Filippo di Savoia signore di Piemonte, più giovane di 15 anni di lei.

Si capisce così la simbologia affidata alla fragile immagine cerea: in particolare il ramo, che Isabella ha cercato di far fiorire con tre mariti. Si noti la presenza del solo scudo paterno dei Villehardouin: nessuna traccia dello stemma dei Savoia, con la croce semplice. L’araldica delle donne è data dalle insegne dei loro padri e mariti, e salvo rari casi non è matrilineare. Lo scudo paterno, e la legenda che indica la dama unicamente come principessa d’Acaia – senza alcun riferimento allo scudo e al casato del marito – induce a pensare che si tratti di un sigillo creato per Isabella in quanto tale, a prescindere dal marito del momento.

Isabella, principessa di cera, finirà i suoi giorni in Olanda, presso la figlia Matilde di Hainaut.

Iolanda di Francia
Mandato di pagamento a favore dei francescani di Notre-Dame de Myans, firmato dalla duchessa, moglie di Amedeo IX
22 marzo 1477
(Miscellanea Quirinale, I versamento, Famiglia Reale-Real Casa, m. 17, f. 10)

“Yolant, primogenita et soror serenissimorum Francie regum, ducissa (…) Sabaudiae”: Iolanda, primogenita e sorella dei re di Francia, duchessa di Savoia. Così, con fierezza ma allo stesso tempo determinata a difendere la propria autonomia, Iolanda di Valois, figlia del re Carlo VII e sorella del re Luigi XI, nonché moglie di Amedeo IX di Savoia, dichiarava la propria stirpe e i suoi titoli. 

Nata a Tours nel 1434, a due anni Iolanda era stata promessa in sposa ad Amedeo ed era stata “spedita” alla corte di Savoia perché vi fosse educata: le nozze vere e proprie furono poi celebrate nel 1452. Minuta e piccolina, la principessa avrebbe partorito dieci figli in meno di vent’anni. Molto presto fu chiaro che lo sposo era inadatto a regnare. Soggetto ad attacchi epilettici periodici e lunghi, il mite Amedeo si rifugiò nelle pratiche religiose e caritative (sarebbe poi stato beatificato), mentre Iolanda dovette imparare a governare al suo posto. 

Il ducato attraversava un periodo di crisi politica, minacciato dalle mire dei vicini: il duca di Borgogna, Luigi IX – fratello di Iolanda – e il duca di Milano. C’erano poi i turbolenti cognati Savoia: Filippo di Bresse, “Senza Terra” per primo, e poi Giacomo di Romont e Gianludovico vescovo di Ginevra, che rivendicavano la partecipazione all’esercizio del potere ducale. Quando nel 1469 Iolanda fu ufficialmente nominata reggente per il marito infermo, la loro ira si scatenò. Nel 1472 Amedeo morì e la duchessa, da politica navigata, si fece acclamare dall’Assemblea dei Tre Stati tutrice e reggente per il figlio Filiberto. Di qui la seconda parte del titolo adoperato nel documento: “tutrix et tutorio nomine illustrissimi filii nostri carissimi, Philiberti Sabaudie etc. ducis” (tutrice e a nome tutorio dell’illustrissimo, nostro figlio carissimo, Filiberto duca di Savoia). 

“Savia madama, ma è pur donna”, scriveva di lei l’ambasciatore veneziano alla corte di Savoia… non stupisce che in passato gli storici della dinastia sabauda l’abbiano giudicata in modo negativo.  Eppure Iolanda affrontò situazioni di politica interna ed estera difficilissime e seppe comunque governare: ebbe iniziative legislative, riformando e pubblicando gli Statuti che erano stati promulgati da Amedeo VIII nel 1430; giocò un ruolo importante nella promozione della cultura letteraria, artistica e musicale del ducato e promosse alcune opere pubbliche, tra cui la costruzione del Naviglio d’Ivrea.

Per via della reggenza, Iolanda “teneva i cordoni della borsa” dello Stato (a dire il vero abbastanza vuota), e tutti gli atti ufficiali erano emanati direttamente a suo nome. È ciò che ci dice il foglietto in mostra, un mandato di pagamento relativo a una questione piuttosto ordinaria: l’elemosina principesca legata a un santuario mariano molto venerato nei dintorni di Chambéry. Il documento ci tramanda anche la firma autografa della duchessa: “Yolant”. Siamo nel periodo in cui la firma si sta affermando come mezzo di autenticazione, destinato col tempo a soppiantare il sigillo. 

Leggendo tra le righe, si scorge comunque la sensibilità personale di Iolanda per gli ordini mendicanti, nel caso specifico i francescani, che erano molto attivi in ambito cittadino e presso le élites. La duchessa, che per anni aveva trasferito la sua residenza a Torino e a Vercelli per mettersi al riparo dalle mire dei suoi vicini francesi, era ora a Chambéry – la capitale amministrativa del ducato – dopo l’ennesima traversia. Nell’estate del 1476 Iolanda era stata rapita dal duca di Borgogna, Carlo il Temerario (il duchino era stato messo in salvo con una fuga rocambolesca) ed era rimasta nel castello di Rouvres fino a ottobre. Fuggita dal re suo fratello, che aveva posto il ducato sotto la sua protezione, trascorse l’inverno e la primavera successivi a Chambéry, possiamo immaginare in quale stato d’animo. Tornata in Piemonte, Iolanda sarebbe poi morta, minata nel fisico, nel castello di Moncrivello il 29 agosto 1478.

Margherita di Valois
Margherita, moglie del duca Emanuele Filiberto, chiede al cugino Filippo di Racconigi di favorire un accordo con i valdesi
1561
(Museo storico, Autografi dei principi regnanti di Casa Savoia, f. 19)

La storia che stiamo per narrare è quella di una principessa francese, colta e raffinata, che divenne duchessa di Savoia in un periodo in cui la repressione armata della dissidenza religiosa era un imperativo politico.

Margherita di Valois era fille de France: questo era il titolo che le era dovuto come figlia di un re di Francia, Francesco I. Nata nel 1523, rimasta molto presto orfana di madre, era stata allevata amorevolmente dalla zia Margherita di Navarra, poetessa e scrittrice, che ne affidò l’educazione a celebri umanisti. In quell’ambiente, la principessa divenne sensibile alle istanze di riforma della Chiesa che agitavano le coscienze dell’epoca, nella corrente moderata che aveva preso le mosse dal grande umanista Erasmo da Rotterdam.

Nel 1560 Margherita venne in Piemonte, come sposa del duca di Savoia Emanuele Filiberto. Il matrimonio era espressamente previsto dal trattato di pace di Cateau-Cambrésis: al duca di Savoia, generalissimo delle armate asburgiche, venivano restituiti i suoi stati, occupati per più di vent’anni dai francesi, e si dava una sposa francese non bella, considerata ormai vecchia (Margherita aveva 36 anni) con la segreta speranza che la coppia non avesse figli. Così, una volta morto Emanuele Filiberto, Francia e Spagna si sarebbero spartite il ducato di Savoia. Contro ogni previsione, nel 1562 Margherita avrebbe partorito un bambino, il futuro Carlo Emanuele I.

Il rapporto tra Margherita e Emanuele Filiberto non fu d’amore nel senso che gli attribuiamo noi contemporanei: come la maggior parte dei principi dell’epoca, il duca era uno sposo infedele, ed ebbe diversi figli illegittimi da diverse amanti. Ma sin dall’inizio l’intesa, la stima, l’affetto tra due personalità forti furono profondi e reciproci, e la saggezza di Margherita orientò più volte le scelte politiche del marito, alle prese con i problemi della ricostruzione dello Stato. E tra questi, c’era la questione dei Valdesi, insediati per lo più nelle valli del Pinerolese. Antica eresia medievale, il Valdismo aveva da qualche decennio aderito alla Riforma protestante ed era equiparato a una forma di ribellione all’autorità costituita. Il duca tentò di risolvere il problema con una repressione militare in piena regola, ma la guerriglia dei montanari valdesi fece fallire il progetto.

La prudente Margherita non aderiva apertamente alla Riforma, a differenza della zia Renata di Francia, duchessa di Ferrara che dovette riparare in patria per sfuggire alla persecuzione. Certo era una donna colta, sensibile alla critica degli eccessi della religione tradizionale e ai principi di tolleranza religiosa. Una donna che non temeva di tenere nella sua biblioteca numerosi libri proibiti, di leggere le traduzioni della Bibbia e il Catechismo di Calvino, né di circondarsi di dame di compagnia ugonotte o di poeti sospetti d’eresia. Sulla scia di Erasmo da Rotterdam, era aliena dall’adesione polemica a una confessione piuttosto che all’altra, e in Francia aveva visto da vicino qual era il prezzo dei contrasti violenti tra cattolici e protestanti. Le sue simpatie andavano anche agli ebrei sudditi del duca, a difesa dei quali fece revocare più volte degli editti di espulsione.

In quel 1561, quando gli scontri armati tra le truppe ducali e i valdesi erano ormai a uno stallo, Margherita si rivolse a Filippo di Savoia Racconigi, cugino e collaboratore del duca che condivideva la sua moderazione, prospettando l’aiuto di un’altra donna, una “regina” (potrebbe essere una delle due nipoti, Elisabetta di Valois regina di Spagna o Elisabetta regina di Francia) per convincere il marito. Il documento, di cui diamo la traduzione, è in francese.

“A mio cugino [Monsignor di Racconigi] Cugino mio,
vedrete dal messaggio che vi ha spedito il Signor duca la buona volontà che egli ha di adottare tutte le possibili ragioni per pacificarsi con quella povera gente.
Egli vi prega di far loro comprendere il torto che si farebbe a lui, ed anche a me, per la pena che io prendo per essi, se, sollevando qualche difficoltà o puntiglio senza senso, ritardassero un sì gran bene per loro.
Sono sicura che non tralascerete nulla, ma se per avventura voi non poteste ottenere ciò che voi e io desideriamo, io avrei ancora un altro modo per provare a rimediare, perché la Regina mi ha fatto sapere che non me ne devo preoccupare: quando vedrete di non poter fare null’altro, sarà sufficiente che le scriva e lei interverrà con soddisfazione sia del duca sia di quel povero popolo. (…) sono convinta che fin qui avete agito così bene e vi siete tanto impegnato, che nessun altro avrebbe la volontà e l’onore di portare a compimento una così buona e lodevole pace (…)
Vostra buona cugina
Margherita di Francia”

Poco dopo, grazie alle pressioni della moglie, Emanuele Filiberto avrebbe affidato a Filippo di Racconigi le trattative con i ribelli, concedendo la cosiddetta pace di Cavour. Per i tenaci Valdesi, pur tra mille limiti e nelle sole valli di Luserna, si creava un’isola di libertà di culto inedita per un paese cattolico. L’intervento di Margherita, principessa della tolleranza, aveva aperto la strada a una delle prime, timide sperimentazioni politiche di convivenza tra uomini di fedi diverse.

La principessa Clotilde
La principessa accetta di sposare il principe Gerolamo Napoleone “per il bene del suo Paese”
1858
(Legato Umberto II – I versamento, Archivio della Casa Reale, m. 17, f. 4)

Il 21 luglio 1858 Napoleone III, imperatore dei francesi, e il conte di Cavour, presidente del consiglio dei ministri del regno di Sardegna, si incontrarono in incognito presso la stazione termale di Plombières. I due gettarono le basi per un’alleanza militare che avrebbe dovuto sconvolgere l’assetto geopolitico dell’Italia: non ancora l’unità, ma la cacciata degli austriaci e una confederazione italiana indipendente costituita da quattro stati – del Nord, a guida sabauda, del Centro, del Sud, più lo stato pontificio. Il programma, posto sotto la pesante tutela della Francia, aveva un prezzo per il regno di Sardegna, e quel prezzo fu fissato direttamente da Napoleone: la cessione alla Francia della contea di Nizza e del ducato di Savoia; e la primogenita di Vittorio Emanuele II, Clotilde, di soli 15 anni, da dare in matrimonio al trentaseienne cugino dell’imperatore, Gerolamo Bonaparte, per rinsaldare il legame tra le due case regnanti.

La coppia era pessimamente assortita. Da una parte Gerolamo, detto Plon Plon, fisico ingombrante, notoriamente dissoluto e irreligioso; dall’altra una ragazzina, poco avvenente, religiosissima, e sempre più dedita alle pratiche di pietà dopo la morte della madre. 15 anni erano pochi agli occhi del re Vittorio, legatissimo alla figlia e lacerato dagli scrupoli, ma non per Cavour, il Grande tessitore, che iniziò a manovrare in nome dello scopo superiore: bisognava convincere il re e fare pressione sulla ragazza attraverso le persone cui era più affezionata.

Nella piccola corte personale della principessa quelle nozze erano viste come una sciagura, anche da chi era ben informato dei disegni di Cavour, come la contessa Pes di Villamarina, che sapeva tutto dal marito Bernardo, amico del conte.

Il 23 agosto, da Torino, Cavour cercava di forzare le perplessità di Bernardo:

“[il Re] non è in collera con te, non ha il menomo pensiero di attraversare i nostri progetti. Solo, essendo egli di carattere straordinariamente debole, non osa insistere con sua figlia; vuole, ai suoi occhi, comparire come costretto a cedere a fronte di una necessità politica. In una parola vuole che io faccia la parte di tiranno, riservando per sé quella di padre nobile, affettuoso. Forse non è tale condotta né nobile né generosa. Ma non importa: se il Re è debole, io son duro come il macigno, e per raggiungere il santo scopo che ci siamo proposti incontrerei ben altri pericoli che l’odio di una ragazza e le ire dei cortigiani. Fatti animo e la patria redenta ti terrà conto dei servizi che rendi alla gran causa.
Tuo aff.mo fratello C. Cavour”

In breve: basta con i capricci di una ragazzina, in gioco c’è l’indipendenza italiana. E chi orchestra le danze con la Francia non è il re, ma il suo ministro. Clotilde alla fine cedette, chiedendo almeno di vedere prima di persona il futuro marito. Il 14 settembre, da Racconigi, Bernardo di Villamarina scriveva a Cavour:

“Amico carissimo,
nella tema d’essermi mal espresso ieri sera ripetendoti le parole di Madama Clotilde, pensai di scrivertele testualmente, rettificandole. Eccole: “Ho detto a Papà di far venire in Piemonte il principe Napoleone, e se la sua persona non mi ripugna, son decisa a sposarlo, e ciò per contribuire al bene del mio Paese ed alla gloria di Papà. Andrò anch’io a brillare alla Corte di Francia, ancorché mi sia poco simpatica.” Ora puoi star certo d’aver le testuali parole di quella cara ragazza […] Tuo aff.mo amico Bernardo.”

Il resto della storia è prevedibile. A Parigi Clotilde si sentì un’estranea e si lasciò assorbire interamente dalle opere di carità e beneficenza, solo spazio di autonomia lasciato alle donne della sua condizione. Le due lettere dell’Archivio di Stato fanno intravedere una storia di politica matrimoniale come tante, vissuta nei termini di un sacrificio personale: solo alla fine degli anni Settanta, in esilio, i due si sarebbero finalmente separati.

Senonché nel 1870 Clotilde ebbe un guizzo improvviso di orgoglio e pose un proprio atto politico, anche se simbolico. La guerra contro la Prussia stava finendo malissimo per la Francia e si profilavano una possibile invasione, la proclamazione della repubblica, la rivoluzione: Plon Plon tagliò la corda portando con sé i figli, ma la moglie si rifiutò di lasciare Parigi. Vittorio Emanuele le scrisse perché si mettesse in salvo. La risposta, datata 24 agosto è conservata in un altro archivio (quello della fondazione Sella a Biella, perché re Vittorio la donò a Quintino), può sembrare retorica ma svela una Clotilde adulta e con le idee chiare.

“Carissimo Papà mio […] Non glielo nascondo, so cosa si dice e si pensa qui (…). Sono francese, non posso abbandonare il mio paese. Quando mi sono maritata, quantunque giovane, sapevo cosa facevo e se l’ho fatto è perché l’ho voluto (…) Non sono una principessa di Casa Savoia per niente. Si ricordi cosa si dice dei Principi che lasciano il loro paese? Partire quando il paese è in pericolo è il disonore e l’onta, per sempre.”

Sarà Clotilde l’ultima dei Bonaparte a lasciare Parigi, guadagnandosi il rispetto degli avversari.

Donne che lavorano

In Archivio troviamo innumerevoli testimonianze di donne impegnate in lavori intellettuali e manuali, dal Medioevo al Novecento: le vicende di operaie, artiste, professioniste e studiose emergono dai documenti più diversi (manoscritti miniati, lettere, sentenze di tribunale, fotografie) e permettono di riflettere su come nel tempo sia stato svolto, percepito e rappresentato il lavoro femminile. Se una studiosa del Quattrocento può aprire un proprio laboratorio di produzione di manoscritti, non si ritiene ancora possibile riconoscere a una artista di metà Ottocento una onorificenza civile per la sua attività creativa; ancora nel 1884 a una donna avvocato non è permesso praticare la professione mentre i conflitti del XX secolo trasformano radicalmente  il ruolo delle lavoratrici nel panorama industriale italiano.

Christine de Pizan
Livre des faits d’armes, de guerre et de chevalerie
Prima metà del XV secolo
(Biblioteca antica, J.b.II.15, carta 64r)

L’artista femminista statunitense Judy Chicago ha realizzato tra il 1974 ed il 1979 l’installazione dal titolo The Dinner Party (La cena); considerata la prima opera femminista «epica», si presenta come una storia simbolica delle donne nella civiltà occidentale. Su di una tavola triangolare sono apparecchiati 39 posti, ciascuno idealmente occupato da una donna che ha offerto un contributo importante alla storia: oltre che per la dea Kali, Artemisia Gentileschi e Virginia Woolf, troviamo piatti e bicchieri anche per Christine de Pizan, Cristina da Pizzano, una donna davvero singolare nella storia della cultura europea.

Nata a Venezia nel 1365 e trasferitasi a Parigi pochi anni dopo al seguito del padre Tommaso, medico e astrologo alla corte di Carlo V, è considerata la prima scrittrice di professione, nonché la prima storica, attiva in ambiente urbano e non tra le mura di un convento. Christine fu educata alle lettere dal padre ed a Parigi ebbe accesso alla Biblioteca Reale del Louvre, costituita da centinaia di volumi riccamente miniati. Nonostante la sua educazione insolita, Christine ebbe una più tradizionale vita familiare: si sposò ed ebbe tre figli da Etienne de Castel, cancelliere e segretario del Re. In pochi anni però la morte di Carlo V, del padre Tommaso e dell’amato marito, la colpirono duramente, lasciandola vedova a venticinque anni con una famiglia a cui badare. Forse non era pronta ad affrontare tutte queste difficoltà, ma, come racconta nell’opera allegorica Livre de la mutacion de Fortune, mentre sta per naufragare, Fortuna – intesa come la Sorte – la trasforma in un uomo: questa metamorfosi da donna a uomo è metafora del cambiamento,da un’identità femminile, passiva, a una maschile, attiva, di chi guida senza difficoltà la propria vita. Christine si mise dunque a scrivere, prima da copista, poi da autrice: un libro di sue ballate ebbe successo, e non tardarono ad arrivare committenze importanti, prima fra tutte quella della redazione della biografia di Carlo V, affidatale da Filippo di Borgogna, fratello del defunto re. La protezione e le committenze dei personaggi più illustri di Francia le permisero di dedicarsi esclusivamente alla scrittura e all’attività di poetessa e intellettuale: la sua produzione ampia ed orientata a diversi generi si accompagnò sempre alla guida della sua bottega; Christine gestiva infatti uno scriptorium laico, un atelier, ove dirigeva personalmente l’ideazione e l’esecuzione delle miniature. In un’epoca in cui alle donne non erano riconosciute che deboli capacità intellettuali, Christine creò un’immaginaria Città delle Dame, ove attraverso esempi di donne virtuose e importanti nella storia dell’umanità, elaborò una vera e propria opera di difesa della dignità delle donne valida in tutti i tempi.

L’Archivio di Stato di Torino conserva due opere di Christine,  entrambe risalenti al XV secolo.  Si tratta di un incunabolo (si chiamano così i primi libri realizzati con la stampa a caratteri mobili, prodotti tra la metà del ‘400 e l’anno 1500) e di un manoscritto pergamenaceo, che richiamano entrambi nel titolo L’epitoma rei militaris di Vegezio, un tattato di epoca romana sull’arte della guerra. La fama di Vegezio quale auctoritas di primissimo piano in ambito militare fu in epoca medievale così ampia che il nome dell’autore latino venne sovente speso anche in occasioni in cui il codice non riguardava direttamente l‘Epitoma rei militaris. E questo è anche il caso dei due volumi torinesi: si tratta in realtà di due copie del Livre des faits d’armes, de guerre et de chevalerie composto nel 1410 da Christine de Pizan; il trattato, diviso in quattro libri, accomuna l’arte militare ad una riflessione sui fondamenti giuridici della guerra. Perché il trattato di Christine è stato mascherato sotto il nome di Vegezio? In primo luogo perché l’Epitoma ne è indubitabilmente una delle fonti primarie; in secondo luogo, è probabile che si sia trattato di uno stratagemma per favorire la diffusione dell’opera in un’epoca misogina, in cui era del tutto inconcepibile che una donna scrivesse un trattato dedicato all’arte maschile per eccellenza, quella della guerra.

Adelaide Pandiani
A Giovanni Padiani è conferito il titolo di Commendatore della Corona d’Italia in nome della figlia
5 giugno 1877
(Legato Umberto II – I versamento, Archivio della Casa Reale, m. 15, f. 2, doc. 2)

Su carta intestata dell’Ordine Mauriziano, di cui è primo segretario, Cesare Correnti scrive poche righe a Natale Aghemo.

“Roma, li 5 giugno 1877,
All’illustrissimo signor commendatore Nobile Natale Aghemo Capo di Gabinetto particolare di S.M.
Illustrissimo signore,
spaventato dalla folla dei Commendatori  Deputati ho dimenticato stamane di sottoporre a S.M. il decreto per la promozione a Commendatore Della Corona d’Italia dello scultore Giovanni Pandiani, artista provetto e sempre geniale e  Fecondo, il quale già da più di dieci anni è Cavaliere Dell’Ordine Mauriziano ed Ufficiale della Corona D’Italia. Il Pandiani è padre e maestro della  egregia scultrice Adelaide Mariani che espose quest’anno a Napoli una statua molto ammirata rappresentante l’ultimo momento di Saffo. Anche  per questo, non potendosi accordare una distinzione cavalleresca all’egregia artista, si crede opportuno onorar lei nell’uomo che la generò alla vita e all’arte.
Prego V.S. Onoratissima a voler fare le mie veci, correggere la mia dimenticanza e ottenere la firma sovrana  Pel Decreto che le rimetto.
Con alta stima,
Cesare Correnti.”

In questa lettera la cui protagonista è, indiscutibilmente, una donna, incontriamo ben tre uomini: Cesare Correnti, politico e scrittore e sostenitore dell’idea italiana, combattente delle Cinque giornate, dopo l’armistizio Salasco (1848) militò nell’opposizione democratica e in seguito appoggiò Cavour. Deputato al Parlamento subalpino e dal 1861 al Parlamento italiano, fu due volte ministro dell’Istruzione; qui, in veste di segretario dell’Ordine Mauriziano scrive a Natale Aghemo, capo di gabinetto particolare di sua maestà (in poche parole il segretario privato di Vittorio Emanuele II) per domandargli la promozione a Commendatore della Corona d’Italia dello scultore Giovanni Pandiani. Nulla di strano poiché questa richiesta rientra nei suoi compiti di segretario dell’Ordine Mauriziano, se non fosse che la decorazione andrebbe qui assegnata per interposta persona! Non potendo conferire l’onorificenza ad una donna, la si assegna al di Lei padre, nell’intento (ingenuo – se non addirittura offensivo – ad occhi contemporanei) di valorizzare i suoi meriti di “egregia artista”: Adelaide fu infatti una delle prime donne in Italia a cimentarsi da professionista nella scultura, genere tradizionalmente  riservato  agli  uomini.  Dopo  l’esordio  nel  1857 all’Esposizione di Brera, nella seconda metà del secolo produsse soprattutto ritratti e monumenti funerari di matrice tardoromantica, arrivando a godere di una certa notorietà. L’opera citata nella lettera, un busto in marmo rappresentante la poetessa Saffo fu inviata all’Esposizione Nazionale di Belle Arti di Napoli; l’anno seguente la sua Saffo, esposta al Salon di Parigi, assai   lodata dalla critica, venne acquistata dai Rothschild. Attenta alla tematica dei diritti delle donne, Adelaide fu attiva anche nell’ambito associazionistico; nel 1908 fu infatti una delle tre artiste chiamate a intervenire, con una relazione su La donna  nella  scultura, nella  sezione  del primo  convegno  del  Congresso Nazionale delle Donne Italiane dedicata alle arti figurative.

Il documento, che ci ha offerto uno sguardo insolito sulla lunga strada verso la parità dei diritti tra uomini e donne, fa parte della ricchissima corrispondenza presente all’interno del cosiddetto Legato Umberto II, ovvero l’archivio destinato da re Umberto II con lascito testamentario, all’Archivio di Stato di Torino. Sul sito dell’Istituto è possibile consultare l’inventario del Legato Umberto II.

Lidia Poët
Una sentenza della Corte di Cassazione impedisce all’avvocato Poët di praticare la professione forense
1884
(Corte di Cassazione, Sentenze Civili, volume 227, sentenza n. 198)

L’ultimo rapporto della cassa forense, uscito nel 2019, informa che gli avvocati attivi in Italia sono circa 243 mila e di questi Il  52,1%  è  costituito  da  uomini,  mentre  le  donne  raggiungono  la  quota  del  47,9%, approssimandosi,  quindi,  alla  metà  del  totale. Farebbe tanto piacere poterlo raccontare a Lidia Poet, la prima donna laureata in legge in Italia, alla quale per quasi quarant’anni fu impedito dalla legge e dalla giurisprudenza di esercitare la professione di avvocato.

Nata a Traverse di Perrero nel 1855 in una famiglia benestante, conseguì il diploma di maestra, e dopo aver trascorso un periodo in Svizzera ove imparò il tedesco e l’inglese, tornò a Pinerolo per iscriversi, nel 1878, alla facoltà di legge dell’Università di Torino.

Nel 1881 si laureò in giurisprudenza, con una tesi sulla condizione femminile nella società e sul diritto di voto per le donne; nei due anni seguenti svolse il necessario praticantato a Pinerolo – dove anche il fratello Enrico era avvocato – ; superati gli esami per diventare procuratore legale, chiese di essere iscritta all’Albo degli avvocati e procuratori di Torino.

Era la prima donna a farlo, e lo sconcerto dovette essere molto, tuttavia il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, con quattro voti contrari ed otto favorevoli, accettò l’iscrizione di Lidia all’albo. Il clamore suscitato dalla notizia venne amplificato dai giornali ed il dibattito toccò tutto il mondo giuridico dell’epoca, fino ad approdare in Magistratura. Il Procuratore generale del Re presso la Corte d’Appello di Torino impugnò la delibera di iscrizione motivando la propria opposizione con il considerare che la legge non consentiva espressamente alle donne il titolo e l’esercizio di avvocato; la Corte d’Appello accolse la richiesta del Procuratore generale ed annullò la delibera del Consiglio, inibendo a Lidia l’esercizio della professione forense. Lidia però non si diede per vinta ed il 28 novembre del 1883 presentò ricorso presso la Corte di Cassazione; la sentenza, benché prodiga di riconoscimenti ai meriti intellettuali di Lidia, confermò la decisione della Corte d’Appello.

L’Archivio di Stato di Torino conserva questa sentenza, emessa il 18 aprile 1884; da questo documento si può capire come Lidia avesse cercato supporto alla sua richiesta appellandosi all’uguaglianza dei cittadini garantita dall’articolo 24 dello Statuto Albertino:

“Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi.”

La sentenza ribalta però questa idea di uguaglianza, sostenendo che

“Questo è quanto ha promesso il legislatore costituzionale secondo il suo ufficio, cioè di non più ammettere, ed impedire che sorgano in avvenire le disuguaglianze che non procedono dalla natura; ma non gli si poteva chiedere che togliesse le inegualità naturali, che costituiscono altrettanti stati e modi d’essere particolari nella condizione della personalità umana anche dinanzi alla legge.”[…] “Quindi non solo presso di noi, ma presso altri popoli che ci hanno preceduto, ed anche superato nella carriera della civile egualità e libertà, le donne hanno sempre avuto una condizione più o meno disuguale da quella degli uomini di fronte ai diritti sociali e civici, ed anche riguardo a taluni diritti civili che hanno una qualche relazione colla capacità politica, finora negata alle donne […] per conseguenza non è ancora ammessa la libera, assoluta concorrenza della donna in ogni genere di ufficio sociale, anzi è esclusa dalla diretta compartecipazione alla pubblica attività nelle cariche, funzioni, ed uffici pubblici.”

In conclusione, la sentenza rimette la questione nelle mani del Legislatore, cui spetta l’onere di prevedere esplicitamente un’estensione dei diritti delle donne:

“Oramai già moltissimi convengono in ritenere, che ogni passo che fa la donna verso l’uguaglianza dei diritti coll’uomo, segna un progresso dell’uomo nella via della civiltà; ma un più esteso allargamento della condizione giuridica delle donne non deve venire che da apposita, espressa dichiarazione dei diritti delle donne nel progressivo perfezionamento della legislazione speciale.”

Perso il ricorso in Cassazione, Lidia non potè esercitare a pieno titolo la sua professione, ma collaborò con il fratello Enrico e divenne attiva soprattutto nella difesa dei diritti dei minori, degli emarginati e delle donne; si interessò di diritto penitenziario, anche internazionale, e durante la Grande Guerra prestò la sua opera come infermiera della Croce Rossa, guadagnando una medaglia d’argento.

Ma all’indomani guerra, a distanza di 35 anni dalla pronuncia della Corte di Cassazione che aveva ostacolato il suo sogno, fu promulgata la cosiddetta legge Sacchi che abolì l’autorizzazione maritale e autorizzò le donne ad entrare nei pubblici uffici, tranne che nella magistratura, nella politica e in tutti i ruoli militari. Lidia Poët nel 1920, all’età di 65 anni entrò quindi finalmente nell’Ordine, divenendo ufficialmente avvocata.

Le operaie della “Donato Levi e figli”
Dipendenti dello stabilimento di San Damiano d’Asti vestite con le divise militari prodotte durante la Grande Guerra
1915
(Gruppo finanziario tessile, m. 2935 f. 1)

Il Gruppo Finanziario Tessile (GFT) nacque nel 1930 dalla progressiva fusione di due Ditte Ottocentesche: la torinese Donato Levi e quella biellese dei Lanifici Rivetti, divenuta dopo la Prima Guerra Mondiale una delle principali produttrici laniere di Biella.

A partire dagli anni ’50, il GFT svolse la funzione di sbocco di mercato dei Lanifici Rivetti, pur iniziando a specializzarsi in quella che sarà la sua vocazione industriale, quella degli abiti confezionati: fin dagli anni ’30 il GFT iniziò infatti la produzione di confezioni maschili, abiti da lavoro e forniture militari, mentre cominciavano a nascere in Torino negozi con i marchi Marus e Facis.

Nel 1954 i tre fratelli Rivetti cedettero le loro partecipazioni nei Lanifici Rivetti per assumere la proprietà completa del GFT, scommettendo sul futuro incremento di richieste dell’abito confezionato nell’Italia del secondo dopoguerra.

Tra gli anni ’50 e gli anni ’70 il GFT divenne così, soprattutto attraverso il suo marchio Facis, una delle principali ditte italiane specializzate nelle confezioni d’abbigliamento e nella produzione di massa. Tale successo fu dovuto essenzialmente ad un rinnovamento delle tecniche produttive, per le quali vennero importati sistemi di produzione tipici degli Stati Uniti, ad un’innovazione del prodotto, reso progressivamente sempre più adattabile alle esigenze della clientela, ad una strategia di marketing che prevedeva una diffusione capillare del prodotto attraverso un’estensione a tutta l’Italia della catena di negozi Marus.

Specializzato soprattutto nella produzione di abbigliamento maschile, il GFT non riuscì però mai ad avere altrettanto successo nella produzione di abbigliamento femminile, nonostante i tentativi svolti in tal senso; dopo la crisi dei consumi degli anni ’70, il GFT modificò il suo target di mercato, affiancando alla tradizionale produzione di abbigliamento di massa quello di un pret-à-porter griffato che meglio si adattava ai nuovi gusti del mercato degli anni ’80: risalgono al periodo le collaborazioni con noti stilisti, quali Armani, Valentino, Ungaro.

Agli anni ’90 risale l’inizio della crisi dell’Azienda, aggravata dalla morte, nel 1996, del presidente Marco Rivetti e culminata, nel febbraio 2003 con la chiusura e la cessione dei marchi come Facis e della collezione Valentino.

Nel 1986 il GFT costituì il proprio Archivio Storico, dichiarato di interesse storico da parte della Soprintendenza Archivistica per il Piemonte e la Valle d’Aosta nel 1989; A partire dal 1994, in seguito alle difficoltà finanziarie del Gruppo,  l’Archivio viene depositato in ASTo, ove, nel 2013, è stato riordinato nell’ambito del progetto Manutenzione della memoria territoriale.

L’Archivio comprende un patrimonio eccezionale di documenti relativi alla Gestione aziendale, alla contabilità, alla gestione del personale, agli affari legali; quelli sul Prodotto, che consentono di seguire il processo di produzione dei capi; i nuclei riguardanti la Pubblicità e comunicazione, con i quaderni di tendenza usati per la preparazione delle collezioni, i cataloghi pubblicitari dei modelli, le riviste; il ricchissimo materiale pubblicitario, come i manifesti e le pellicole del Carosello, oltre all’immensa collezione fotografica e di diapositive.

Così, i disegni dei modelli degli abiti da produrre, i campioni del tessuto da utilizzare e le indicazioni sartoriali per la confezione rivivono nella sezione dedicata alle Schede di lavorazione del Prodotto. La sezione Comunicazione e immagine tra i nuclei di Pubblicità e comunicazione testimonia invece del forte legame con l’arte che il GFT dimostrò, in special modo, negli anni in cui fu Marco Rivetti a guidarlo.

Proprio nella collezione fotografica, troviamo testimonianza di come, in tempo di guerra, la produzione industriale (meccanica, metallurgica, chimica, tessile) stimolata dalle commesse statali – armi e munizioni, mezzi ed equipaggiamenti… – vede attivamente impegnati nelle fabbriche e nei campi coloro che sono rimasti a casa, in particolare le donne: è il caso delle carte e delle immagini delle operaie tessili della Ditta “Donato Levi”, società fondata nel 1884 e assorbita negli anni Trenta del Novecento dal Gruppo Finanziario Tessile che negli anni della Prima Guerra Mondiale possedeva centri di produzione per la lavorazione di tessuti e il confezionamento di abiti (incluse le divise militari) a Torino, San Damiano d’Asti, Bra, Carmagnola e Firenze.

Nella fotografia in mostra, scattata all’esterno dello stabilimento di San Damiano d’Asti, alcune operaie vestono le uniformi da soldato che esse stesse cucivano: si tratta del cosiddetto modello 1909 in panno grigio-verde, previsto per la truppa, dato che sembrano mancare le tasche. Lo scatto, che senz’altro aveva come scopo la promozione della ditta e del supporto offerto ai soldati al fronte, testimonia, forse, anche un certo desiderio delle operaie di affermare l’indispensabilità del contributo femminile alla causa bellica.

La Società Nazionale Officine di Savigliano
Operaie al lavoro durante la Grande Guerra
1915 ca.
(SNOS, Archivio fotografico, m. 56, f. 245)

Una delle più antiche realtà metalmeccaniche del Piemonte è costituita dalla Società Nazionale Officine di Savigliano (SNOS). Fondata ufficialmente nel 1880, affonda le sue radici nel 1869, quando il passaggio della linea ferroviaria Torino-Cuneo alla Società Alta Italia segna la chiusura dello stabilimento costruito in prossimità della stazione di Savigliano (adibito alla riparazione e alla costruzione di materiale ferroviario) dalla Società della Ferrovia Torino-Cuneo.

Nel 1879, il sindaco di Savigliano firma con i rappresentanti della Società Alta Italia un protocollo d’intesa in virtù del quale il Comune si impegna a versare una somma di 250.000 Lire e ad affittare alla compagnia belga Rolin, (società costruttrice di materiale fisso e mobile), i vecchi locali delle officine della Società Ferrovia Torino-Cuneo per consentire la rinascita della fabbrica. Poco dopo, il 17 luglio del 1880, è fondata a Torino la Società  Nazionale Officine Savigliano, avente per oggetto la costruzione e la riparazione di materiale ferroviario, ponti metallici, tettoie, costruzioni meccaniche, elettriche ed aeronautiche nonché la lavorazione dei legnami in genere. L’anno successivo l’azienda avvia una fattiva collaborazione con la torinese Società Anonima Italiana Ausiliare di strade ferrate, tramvie e lavori pubblici, costituita con capitale belga. Nel 1889 questa cooperazione (nata per evitare la concorrenza tra le due) si conclude con l’assorbimento della società torinese da parte delle Officine Savigliano che ne ereditano la forza lavoro ed anche gli immobili situati a Torino, in corso Mortara, nei pressi della Stazione Dora, che si estendono su una superficie di 30.000 metri quadrati e occupano 700 dipendenti.

Tra il 1892 e il 1912 lo stabilimento di Torino inizia a diversificare la produzione: la fabbricazione di macchinari elettrici e quella di costruzioni impiantistiche ed elettromeccaniche vanno a sostituire, progressivamente, gran parte delle precedenti attività. Tra il 1914 e il 1918 le esigenze dettate dal periodo bellico portano la società ad allargare nuovamente il raggio delle produzioni: costruzioni aeronautiche, pezzi vari per l’artiglieria, bombe ed attrezzature di guerra, escono dallo stabilimento di Torino e da quello di Savigliano, dotato anche di un campo di aviazione sul quale eseguire le prove di collaudo dei velivoli costruiti. Al termine della guerra il governo italiano affida alle Officine la costruzione di locomotori, cui segue, nel corso degli anni Venti, la realizzazione di opere infrastrutturali e impianti idroelettrici.

Alla vigilia del secondo conflitto mondiale, la società si presenta come una realtà adatta a sostenere lo sforzo richiesto dalla nuova produzione di guerra, che vede impegnata una forza lavoro composta da 300 impiegati e 1.300 operai: tra il 1920 e il 1930 il complesso di corso Mortara esegue importanti lavorazioni nel campo della carpenteria metallica (per esempio il Mercato Pubblico di Porta Palazzo a Torino), dell’edilizia portuale (progettazione e costruzione di gru elettriche per i porti di Genova, Napoli, La Spezia, Savona e Venezia), delle condotte idrauliche e degli impianti idroelettrici di varie dimensioni e caratteristiche. Durante la Seconda Guerra mondiale la fabbrica fu fulcro di agitazioni operaie ed anche importante avamposto della lotta antifascista: in fabbrica operano cellule partigiane che organizzano la lotta clandestina. Le mine tedesche e gli scontri insurrezionali danneggiano i reparti, che riprendono l’attività già nel maggio 1945, segnando una ripresa limitata dal tracollo finanziario del 1952.

Controllata dalla Fiat e della Cogne, la ripartenza della società è all’insegna delle radio Savigliano, del trattore Ciclope e della locomotiva E444: negli anni Sessanta l’azienda cede alla Fiat il comparto ferroviario, abbandonando le lavorazioni edilizie e dei grandi complessi meccanici. Nel 1975 è acquisita dalla General Electric e nel 2005, ridotta a 80 dipendenti, chiude i battenti. Sull’area ex SNOS oggi sorge un centro commerciale.

Specchio delle differenti produzioni industriali della SNOS è il suo ricco archivio, ora versato all’Archivio di Stato di Torino; il fondo fotografico presente nell’archivio permette un viaggio all’indietro nella storia industriale torinese e italiana del XX secolo: fotografie di officine, di operai e operaie al lavoro, di macchinari e di prodotti industriali della multiforme attività della Savigliano costituiscono un eccezionale documento storico sulla vita sociale ed economica dell’Italia del Novecento. Particolarmente significative sono le foto del periodo della Prima Guerra Mondiale, durante la quale la Savigliano produceva anche armi; quello della Grande Guerra è il periodo in cui si registra la massima occupazione femminile: nella fotografia in mostra si vede una squadra di operaie intente alla saldatura degli involucri nel reparto bombe.

Cittadine che votano

Un lungo cammino per diventare libere è quello percorso dalle donne in Italia, chiamate al voto per la prima volta solo dopo la Seconda guerra mondiale: già nell’Ottocento però, durante la lunga stagione risorgimentale, le donne si adoperano per ottenere rappresentanza; ma sarà solo con l’avvento della Repubblica che otterranno il diritto sia di votare sia di essere elette. Nei decenni precedenti Torino si dimostra un laboratorio interessante per queste dinamiche culturali: dal 1911 in città è attiva l’associazione di genere Pro Cultura Femminile, mentre nel secondo dopoguerra apre  la sezione cittadina dell’Associazione Nazionale Donne Elettrici.

Le donne di Macerata
Una lettera aperta a Vittorio Emanuele II
1860
(Museo storico, Atti pubblici, Ingrandimenti dello Stato di Savoia per dedizioni e annessioni e plebisciti, Plebisciti 1859-1860, f. 8)

Alla fine della seconda guerra d’indipendenza, a seguito della vittoria della Francia e del Regno di Sardegna contro l’Austria e delle insurrezioni locali che avevano stabilito governi provvisori in diverse regioni italiane, si assiste in Europa a un periodo di grandi stravolgimenti politici e territoriali. Vittorio Emanuele II annette al Piemonte nel 1859 la Lombardia e nel 1860  la Toscana, Parma, Modena e la Romagna; sempre nel 1860 cede Nizza e la Savoia alla Francia, per onorare i patti di alleanza stipulati in cambio del suo aiuto nella guerra. Nel frattempo Garibaldi, con la spedizione dei Mille in Sicilia, mette in crisi i cauti progetti cavouriani che prevedevano solo la creazione di un regno dell’Alta Italia.

Si fanno strada in questo momento in tutta Europa i principi di nazionalità e di autodeterminazione dei popoli, che vorrebbero dare ai mutamenti in atto un fondamento più partecipato rispetto a solo accordo tra grandi potenze. Il governo sardo spera che la cessione di Nizza e Savoia alla Francia, così come l’adesione di varie regioni italiane al regno, possano essere supportate da votazioni di assemblee rappresentative, composte dalla parte più agiata e colta della popolazione. Invece in Francia Napoleone III impone il ricorso al plebiscito, ovvero una consultazione popolare più ampia, alla quale possono partecipare tutti i maschi adulti di ogni classe sociale, ma più facilmente pilotabile dall’alto, al fine di confermare quanto già deciso a livello diplomatico: i plebisciti infatti non lasciano spazio a mediazioni, per cui la stessa formulazione del quesito, da accettare o rifiutare in blocco, può molto influire sul risultato. Anche nelle regioni italiane annesse si svolgono nel 1860 dei plebisciti popolari: nei mesi di marzo-aprile a Modena, Bologna, Parma e Firenze, attraverso assemblee rappresentative, a ottobre e novembre in Umbria, nelle Marche e nel Mezzogiorno, con votazioni popolari a suffragio maschile.

Ecco cosa scrivono le donne di Mogliano (una cittadina in provincia di Macerata) a Vittorio Emanuele II, per riconoscerlo come loro re.

“Sire.
È per noi una tremenda sventura l’esser nate donne, poiché ciò, quasi fosse una colpa, ci toglie di potervi dar con la mano un voto, che già vi abbiamo dato col core. Ma se ciò ci allontana dall’urna, ma se ciò ci fa indegne di concorrere a render felice la patria, nulla potrà impedirci di adempiere al più caro ed insieme al più santo de’ nostri doveri, quello di significarvi che noi pure v’invocammo Salvatore, noi pure vi salutiamo nostro Re, e per non più dividerci da voi siam pronte a darvi il padre, i fratelli, l’amante, lo sposo, e se ne sarà d’uopo, i figli stessi e la vita. Sì, o Sire, e con noi i fanciulli, i bambini, cui fu negato il diritto di eleggervi e che qui con noi se ne dolgono, contenderanno all’uomini il diritto o i perigli di combattere al fianco del primo soldato d’Italia, di difendere sempre, da tutti, dovunque, il primo Re Galantuomo.
Viva Vittorio Emanuele,
Degl’Italiani
Fratello Salvatore
Re.”

Nel novembre del 1860 il Regio commissario di Macerata Luigi Tegas comunica così al Commissario generale del Regno di Sardegna la partecipazione delle donne marchigiane al processo di annessione.

“Onorevolissimo Signor Commissario Generale.
Le donne e gli adolescenti di questa provincia in numero di 4738 con gentil pensiero vollero sottoscrivere indirizzi per dimostrare, nel miglior modo che per lor si potesse, il grande affetto e la riconoscenza al Primo Re della Nazione Italiana.
A me affidarono quel prezioso deposito perché con animo reverente lo presentassi all’acclamato Re degli italiani. Ora a Voi, Commissario Generale, cui è dato portare in Napoli il legittimo ed antico voto di queste popolazioni, io raccomando queste pagine ove le madri, le spose, le figlie delle Marche col cuore di associano alle gioie ed ai destini dei loro più cari.
Io son sicuro che non men grato sarà all’animo del Re questo documento, che ha pur la sua grande significazione. È una corona dei più puri affetti e delle speranze più generose deposta sul capo del più amato Sovrano.
L. Tegas
Regio Commissario di Macerata.”

Nonostante il controllo esercitato dall’alto, le consultazioni popolari di unificazione del 1860 (e poi del 1866 e del 1870) rappresentano una pagina fondamentale del processo di unificazione inteso come «movimento di massa». Indicatori del successo di queste consultazioni sono l’ampia partecipazione e l’atmosfera di festa (a volte spontanea, a volte orchestrata dall’alto) in cui si tengono le operazioni di voto, che coinvolgono non solo gli elettori effettivi (i maschi adulti maggiori di 21 anni) ma anche le donne, i minori, gli esuli, gli stranieri e anche gli ex sudditi. Particolarmente diffusa è la partecipazione femminile, a volte stimolata dai governi provvisori, altre volte temuta, se utilizzata per rivendicare pubblicamente diritti politici che verranno in seguito definitivamente negati dall’assetto dal nuovo Stato in costruzione. In alcuni comuni siciliani, nel 1860 si vota per acclamazione di piazza, senza distinzione di età e di sesso, ma in molte altre località le donne, escluse dal voto ufficiale, si riuniscono per raccogliere le loro firme e le inviano al re come completamento del voto maschile, come nel caso di Macerata.

Le donne conquisteranno il diritto di voto in Italia più di ottant’anni dopo, nel 1945 e voteranno per la prima volta in occasione delle elezioni amministrative della primavera del 1946; nel giugno dello stesso anno parteciperanno alle elezioni dell’assemblea costituente sia come votanti che come candidate: il decreto legislativo n. 74 del 10 marzo 1946 infatti riconosce loro anche il diritto di essere votate. Entrano così a far parte dell’assemblea 21 donne (su un totale di 556 eletti). Votano poi al referendum indetto per determinare la forma dello Stato italiano (monarchica o repubblicana). La Costituzione italiana entra in vigore il 1° gennaio 1948 e il successivo 18 aprile si tengono le prime elezioni politiche: nella I legislatura siedono in Parlamento 982 parlamentari, tra cui 49 donne: il 5 per cento. Le deputate sono 45 su 613, le senatrici 4 su 369.

La Pro Cultura di Torino
Le associate in gita ai laghi
1919
(Pro Cultura femminile, m. 74)

L’Associazione Pro Cultura Femminile nasce a Torino nel 1911 grazie a un gruppo di insegnanti che vogliono “tenere viva la cultura della donna e insieme educarne la coscienza morale e civile a retti ed elevati ideali”: è un’idea rivoluzionaria per l’epoca fondare un’associazione di genere, apartitica e aconfessionale, il cui scopo principale è “fare cultura al femminile”.

Le prime associate iniziano a organizzare conferenze e viaggi e a raccogliere, in un locale della Scuola Normale Maria Laetitia, in cui insegnavano molte delle fondatrici, una biblioteca con i primi 150 libri donati dalle stesse socie, tutte o quasi studentesse. La Biblioteca della Pro Cultura diventa in breve tempo un vero e proprio salotto culturale che convince nel 1922 più di 1800 donne a iscriversi. Negli anni immediatamente seguenti la fondazione vengono organizzate anche concerti, corsi e mostre offrendo alle associate non solo la possibilità di accedere ad un luogo fuori dalle mura domestiche in cui ritrovarsi per ottenere libri in lettura, ma anche la possibilità di partecipare a gite culturali e sportive in città e fuori. Dal 1914 l’associazione si dedica anche all’organizzazione di audizioni musicali e concerti, fino alla creazione nel 1919 della Sezione Musicale Autonoma, che nel 1956 si trasforma in Società di Musica da Camera, attiva fino al 1964.

Durante la prima guerra mondiale, l’associazione fornisce alle iscritte i modelli e la lana per realizzare indumenti da inviare al fronte. Negli stessi anni nascono le “Stanze”, una ventina di locali, sparsi in città, dove si fornisce assistenza ai bambini dei richiamati in guerra nelle ore in cui le madri lavorano. Nel gennaio del 1919, quando pare imminente la concessione del voto alle donne (che invece voteranno per la prima volta solo nel 1946), la Pro Cultura Femminile organizza un primo corso di cultura politica. Al termine della seconda guerra mondiale, nel giugno del 1945, quando riapre la sede di Torino e alle donne è stato finalmente concessa la facoltà di votare, si tiene un secondo corso orientativo con esponenti dei vari partiti politici per preparare le cittadine all’esercizio di questo diritto.

Negli anni Venti e Trenta l’attività delle associate era proseguita anche in direzione artistica, grazie a un direttivo al quale partecipano, tra gli altri, Felice Casorati, Leonardo Bistolfi e Marziano Bernardi e, alla fine della seconda guerra mondiale, con una Sezione Teatrale Autonoma. Fino alla fine degli anni Novanta l’associazione porta avanti il suo progetto culturale con conferenze, concerti e proiezioni cinematografiche. Nel 2002 viene chiusa la sede storica e sciolta formalmente l’Associazione: l’archivio storico viene donato all’Archivio di Stato di Torino e la biblioteca (circa 43000 opere) è depositata alla Biblioteca Civica cittadina. L’Associazione è ancora oggi attiva, in continuità con il progetto originario delle fondatrici.

L’Associazione Nazionale Donne Elettrici
Dalla rassegna stampa, un articolo della Gazzetta del popolo
1958
(Associazione Nazionale Donne Elettrici di Torino, m. 14
)

Alla fine della seconda guerra mondiale le donne italiane, che avevano svolto un ruolo fondamentale nella lotta di liberazione, rivendicarono una presenza più incisiva nella vita politica del Paese. A Roma, già durante il conflitto, nel 1944, era nata l’UDI, l’Unione Donne Italiane, un’“associazione unitaria del movimento femminile di emancipazione” alla quale avevano aderito “donne di ogni credo politico e religioso, per lavorare e conquistare alla donna tutte le libertà, economiche, politiche e sociali”. Nel 1945 era nato anche il Centro Italiano Femminile (CIF), fondato dalle donne di orientamento cattolico e presieduto da Maria Federici, futura deputata alla Costituente: in poco tempo l’UDI, diventerà una organizzazione collaterale del PCI, pur facendone parte anche donne socialiste, mentre il CIF si collegherà all’Azione Cattolica e, quindi, alla Democrazia Cristiana.

Nell’ottobre del 1946 nasce a Roma l’ANDE (Associazione Nazionale Donne Elettrici), su iniziativa di Carla Garabelli Orlando (figlia di Vittorio Emanuele Orlando, Presidente del Consiglio dal 1917 al 1919). La fondatrice, dopo aver vissuto nel Sud e nel Nord America dal 1920 al 1940, era rientrata in Italia alla vigilia della guerra per rimanere vicina al padre ormai vedovo: aveva conosciuto Nennella Cutolo, nipote del giornalista e politico moderato Ruggero Bonghi, che le propose di fondare un’associazione per preparare le donne ad esercitare con coscienza e cognizione di causa il diritto al voto, proprio come in America aveva visto fare alla League of Women Voters. L’A.N.D.E., dunque, è costituita per promuovere nelle donne una maggiore consapevolezza dei loro diritti civili e un più sentito coinvolgimento nella vita pubblica del Paese ma anche per “insegnare a rispettare il pensiero, il giudizio e le decisioni altrui e a saper discutere con mente chiara e disponibile”. Quello che si chiede alle associate è “l’esercizio del pensare”, dal quale il fascismo aveva esonerato gli italiani, e che è invece alla base di una repubblica parlamentare. Lo Statuto dell’Associazione viene scritto da Vittorio Emanuele Orlando, padre di Carla. Secondo l’articolo 1 l’ANDE vuole associare tutte le cittadine italiane,consapevoli dell’influenza che possono esercitare attraverso il diritto di voto sulla vita del Paese per difendere la civiltà, le libertà democratiche ed il benessere. Indipendente dai partiti politici, l’associazione vuole anche promuovere e incoraggiare ogni iniziativa che possa facilitare la formazione e la partecipazione politica della donna e combattere l’indifferenza e l’assenteismo nell’elettorato. Il processo costitutivo dell’Associazione non è semplice: Carla Garabelli vuole coinvolgere donne di diversa formazione politica: lei, monarchica e cattolica, è aiutata da ex anarchiche, ma anche da repubblicane e liberali, la cui convivenza, seppur travagliata, permette all’Associazione di farsi conoscere in tutto il Paese e in ambienti diversi. Le “andine” iniziano a viaggiare per città e paesi, soprattutto nelle zone rurali, per sensibilizzare le donne all’esercizio del diritto di voto. Dove possibile aprono degli uffici di informazione elettorale (utilizzando garage, negozi, appartamenti, l’importante è garantire l’accesso al pubblico). L’entusiasmo delle associate porta rapidamente alla formazione di 76 sezioni provinciali che abbracciano quasi tutto il territorio nazionale: a Torino la fondatrice di sezione è Maria Teresa Morelli di Popolo, seguita da Jolanda Andreis (nella cui casa si stabilisce la prima sede torinese), e tra le altre, Marcella Bocca, Mariolina Buffa di Pereiro, Fanny Badini Confalonieri, Maria Teresa Balbiano. L’associazione torinese si rivolge con particolare attenzione alle casalinghe e alle operaie dei quartieri periferici, (Falchera, San Pietro di Moncalieri, Madonna di Campagna) dove opera in “ritrovi” di cultura femminile civica e sociale e tiene corsi di educazione rivolti agli adulti. Il comitato cittadino è anche membro del Comitato Associazioni Femminili Torinesi, con cui si impegna perché la posizione di parità della donna con l’uomo, riconosciuta dalla Carta costituzionale, diventi effettivamente operante. L’associazione nazionale donne elettrici è ancora attiva oggi in tutta Italia e prosegue nell’impegno, assunto fin dall’origine, di “favorire il dialogo con le forze politiche e sociali per una partecipazione consapevole dei cittadini alla vita politica”.

Nel 1998 l’Archivio della sezione torinese è stato depositato in Archivio di Stato, dove può essere liberamente consultato.

CREDITS

Mostra a cura dell’Archivio di Stato di Torino, organizzata in occasione del Festival Archivissima.

Podcast: original songs “Hopes and Dreams”, “Machinery”, “Modum”, “Harbor”, “Cobweb Morning
and “Changing Reality” by Kai Engel are licensed under CC BY 4.0 or CC BY-NC 4.0
and mixed by Eric Da Roit and Roberto Siggia.