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Con gli statuti del 1389 Bona di Borbone provvide ad una parziale riorganizzazione dell’istituzione portando da due a quattro il numero dei magistri computorum, la cui sede venne fissata in Chambéry.
Fu però Amedeo VII con i suoi Decreta seu Statuta del 1430 il primo ad attribuire alla Camera la giurisdizione nelle cause relative al fisco e al patrimonio del principe. Il duca dispose anche una maggiore articolazione dell’ufficio, ripresa nel 1522 dagli statuti «sur la iurisdiction et connoissance de la Chambre des comptes de Savoye» emenati da Carlo II.
Come avvenne per il resto del Ducato, anche la Camera venne travolta dagli sconvolgimenti che seguirono l’invasione della Savoia da parte dei francesi nel 1536 e solo in seguito alla vittoria di Cateau-Cambrésis Emanuele Filiberto poté riconfermare le prerogative e la giurisdizione della magistratura cioè la «Camera sopra le cause e negotij de’ nostri redditi e patrimonio et il Senato sopra le cause civili e criminali de’ nostri sudditi».
Il trasferimento della capitale da Chambéry a Torino e la necessità di evitare frequenti viaggi oltralpe ai contabili che dovevano sottoporre a revisione i loro conti spinsero il duca a stabilire nel 1577 una nuova Camera dei conti a Torino con le medesime «autorità, preminenze e giurisditioni» di cui godeva quella de là des monts. L’editto del 1577 riconobbe alla Camera dei conti la competenza a giudicare anche le cause tra privati purché vi fosse interessato il demanio, tra queste erano di sua pertinenza quelle per contrabbando e relative a diritti feudali o a beni confiscati per mancato pagamento delle tasse.
Nel 1708 la Camera dei conti di Piemonte assunse le competenze della Camera dei conti di Casale, che era stata mantenuta in vita dopo il passaggio del Monferrato ai Savoia.
La facoltà di interinare o meno i provvedimenti sovrani pose talvolta la Camera dei conti in netto contrasto con il principe, tanto che la contrapposizione a Vittorio Amedeo II nelle operazioni di avocazione dei feudi per limitare il potere della nobiltà portò allo sciogliendo della Camera dei conti di Piemonte nel 1719 e all’emanazione il 7 gennaio 1720 di un editto di riorganizzazione della stessa con uomini fedelissimi al sovrano.
Con successivo provvedimento regio, la Camera dei conti di Piemonte si vide attribuire funzioni e competenze della Camera dei conti di Savoia, ostile al potere centrale e paladina dei diritti dei nobili savoiardi, che venne definitivamente soppressa.
Le regie costituzioni emanate da Vittorio Amedeo III nel 1770 confermarono le prerogative e l’organizzazione della Camera dei conti di Piemonte in base alla normativa precedente, rimanendo in vigore sino all’avvento della dominazione napoleonica e alla soppressione della Camera nel novembre 1801.
La Camera dei conti di Piemonte tornò operativa con l’editto del 21 maggio 1814, con il quale Vittorio Emanuele I ristabilì le antiche magistrature, e nel 1815 ampliò la propria competenza territoriale in seguito all’annessione al Regno di Sardegna dei territori appartenenti all’ex Ducato di Genova.
Nei decenni a seguire, evento significativo per le vicende istituzionali della Camera fu l’abolizione da parte di Carlo Alberto del privilegio di foro, di cui il regio patrimonio aveva goduto sino al 1847, e che limitò fortemente le competenze della magistratura.
A tale provvedimento seguì nel 1852 la proposta di Cavour di riunire in un’unica magistratura le prerogative della Camera dei conti e del Controllo generale delle finanze, che avevano esercitato fino ad allora il controllo preventivo e giudiziario sul potere esecutivo, in modo da rendere più efficace il controllo dell’attività governativa da parte di un corpo di magistrati del tutto indipendenti dal potere esecutivo.
Per tale innovazione bisognerà però attendere il 1859, quando il ministro Rattazzi varerà le leggi per l’istituzione della Corte dei conti.
Archivio di Stato di Torino, in Guida Generale degli Archivi di Stato Italiani, IV, Roma 1994, pp. 363-641;
L. Vigna, V. Aliberti, Dizionario di diritto ammnistrativo, II, Torino, Fratelli Favale, 1841, p. 75.
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