Evento drammatico e cruciale nella storia della biblioteca fu l’incendio dell’inverno 1904. L’incendio scoppiò nella notte fra il 25 e il 26 gennaio forse generato dalle stufe collocate negli alloggi dei custodi, nel sottotetto.

Definitivamente debellate nelle prime ore del mattino del 26, le fiamme causarono i danni assai ingenti: cinque delle trentotto sale di cui era composta la biblioteca erano completamente distrutte. Le perdite più notevoli furono subite dalla sala manoscritti, nella quale si riuscì a irrompere solo dopo una lunga lotta con la porta metallica che sigillava i locali. Fuoco, calore, acqua di spegnimento, alterazione repentina della temperatura, e, infine, l’urto provocato dal fatto che i codici furono gettati in strada dalle finestre, causarono la completa distruzione di numerosi manoscritti o, in casi più fortunati, una serie di menomazioni varie e talora molto gravi: le sezioni danneggiate in modo più cospicuo furono quella orientale, cui appartenevano i codici ebraici, quella italiana e quella francese. Per quasi tutti questi codici era andata perduta la segnatura originaria, la legatura era distrutta, i fascicoli si erano scompaginati e le pagine, quando non completamente polverizzate, erano sparpagliate, spesso scurite, rimpicciolite o dilatate dal calore, accartocciate e non di rado incollate le une alle altre a formare scuri e pesanti blocchi.

Andarono perduti anche testi a stampa di pregio, come le edizioni aldine, numerosi incunaboli e circa 30.000 volumi di consultazione.

A.IV.19_2 (Biblioteca Nazionale: manoscritti ebraici sopravvissuti all'incendio del 1904)

Ripristino dopo l’incendio

Nei giorni successivi all’incendio molto fu l’impegno per contenere e far rientrare l’emergenza. Fra gli aiuti in termini di mano d’opera, si ebbero interventi di alcune scuole torinesi – il Liceo classico Massimo D’Azeglio, il Liceo classico Gioberti, l’Istituto tecnico Sommelier per citarne solo alcuni – che mandarono i propri bidelli a collaborare nel recupero dei libri.

Numerose furono anche le donazioni librarie di cui negli anni e nei decenni successivi beneficiò la biblioteca: ad esempio la collezione di 26.000 opere di periodo napoleonico donata nello stesso 1904 dal barone Alberto Lumbroso (1872-1942), le raccolte Foà e Giordano, acquisite nel 1927 e nel 1930 e intitolate ai due mecenati che finanziarono l’acquisto dei manoscritti musicali che le compongono, i manoscritti appartenuti al conte Giacomo Durazzo (1717-1794), le pubblicazioni di un certo numero di case editrici che misero a disposizione della biblioteca tutti i titoli presenti nei propri cataloghi. Nell’arco del secolo scorso si annoverano anche alcuni acquisti importanti che avevano lo scopo di restituire prestigio alla collezione manoscritta e di libri antichi: fra questi l’acquisto della biblioteca di Margherita di Savoia nel 1966 e quello della collezione orientalistica del viaggiatore Ridolfo Vittorio Lanzone (1834-1907). Di grande importanza in particolare per gli studi ebraici e orientali l’acquisto (1969-1970), della biblioteca e dell’archivio Peyron.

Si concepì inoltre il progetto di una nuova sede, progetto che nel 1907 divenne ufficiale con l’emanazione di una legge apposita. La nuova biblioteca, progettata in piazza Carlo Alberto al posto delle scuderie Carignano, non fu agibile prima del 1973.

Nei mesi immediatamente successivi all’incendio si tentò di fare il punto sul numero e sulle condizioni dei manoscritti superstiti. Considerate le condizioni di molti codici, in special modo orientali, italiani e francesi, una delle prime esigenze insieme al ristoro materiale fu l’identificazione dei codici o dei frammenti senza segnatura.

Identificazioni e restauri

Identificazioni e restauri delle pagine danneggiate furono la parte più importante dell’attività di ripristino della Biblioteca a seguito dell’incendio. Iniziarono nell’inverno 1904, con tempestività, ma, sia i restauri fisici sia l’attività di riconoscimento delle carte scompaginate si svolsero a singhiozzo e ripresero con sistematicità solo all’inizio degli anni Duemila.

Le prime identificazioni di carte ebraiche si devono a Italo Pizzi, il quale, sin dal 1904, fu incaricato delle identificazioni degli orientali, insieme a Carlo Cipolla e Carlo Frati che lavorarono sui latini, Gaetano De Sanctis sui greci e Rodolfo Renier sugli italiani e sui francesi.

A.VII.53 (Biblioteca Nazionale: manoscritti ebraici sopravvissuti all'incendio del 1904)

A.VII.53 (Biblioteca Nazionale: manoscritti ebraici sopravvissuti all’incendio del 1904)

Stando alla relazione che Pizzi aveva presentato all’Accademia delle Scienze alla fine del 1904, egli aveva identificato circa 52 codici, ma non si tratta in tutti i casi di identificazioni corrette; egli stesso aveva sottolineato più volte l’incertezza dei risultati ottenuti, specialmente per gli ebraici, a causa dell’enorme difficoltà incontrata nel riconoscere gli innumerevoli frammenti mutili e malconci (PIZZI, Il riconoscimento dei Manoscritti arabi, persiani, turchi, ebraici, della Regia Biblioteca Universitaria di Torino, dopo l’incendio del 26 Gennaio 1904, in «Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino», 39 (1903-1904), pp. 1068-1069):

«Gli ebraici invece, essendo quasi tutti membranacei […], si sono talmente raggricciati, hanno avuto incollati e fusi insieme i loro fogli ai margini, che son diventati come tanti blocchi di pietra». E «Non ho riordinato perciò in molti casi (e sarebbe stato assolutamente impossibile) i fogli scompaginati […]».

Come il Pizzi ricordava all’esordio della relazione, il lavoro sui codici fu interrotto nel giugno dello stesso 1904; questioni ritenute più urgenti, tra le quali il restauro fisico, avevano assorbito la maggior parte delle energie, umane e finanziarie. Nel periodo intercorso fra l’incendio e la fine degli anni Quaranta non si possono segnalare altri lavori di recupero e identificazione dei manoscritti ebraici bruciati, né studi su singoli codici.

Dopo la seconda guerra mondiale riprese l’attività di identificazione: alcuni codici ebraici furono allora identificati da Isaiah Sonne. Fra il 1947 e il 1954 Sonne riconobbe infatti circa 90 manoscritti, nei quali si devono tuttavia includere anche alcuni codici per i quali già il Pizzi aveva suggerito l’identificazione corretta. Alcune identificazioni di Sonne furono rettificate in seguito.

Negli ultimi decenni del Novecento altri codici furono identificati (ex novo o correggendo riconoscimenti precedenti) da Caterina Rigo, Bruno Chiesa, Mauro Zonta e Giuliano Tamani. Tale attività non sistematica prese forma organica soltanto nel 1999, con l’avvio del cosiddetto Progetto Manoscritti: il progetto, che ha coinvolto studiosi delle diverse discipline e che è in fase molto avanzata, ha portato all’identificazione completa delle carte ebraiche.

I lavori di restauro furono subito avviati e svolti in un primo tempo nel laboratorio di chimica dell’Università, sotto la direzione di Icilio Guareschi, e in quello di materia medica diretto da Piero Giacosa; nel laboratorio di materia medica lavorò anche Carlo Marrè, restauratore della Biblioteca Vaticana, fra il 1905 e il 1918, anno della sua morte.

In seguito l’attività di restauro – che era stata trasferita nel palazzo del Debito Pubblico e poi, dal 1935, nel Museo Egizio – rallentò, e durante la seconda guerra mondiale, quando la gran parte dei codici fu trasferita al castello di Montiglio, nell’Astigiano, si interruppe. Riprese con rinnovato slancio dal 1957: nel periodo che va da quell’anno al 1973 vennero infatti restaurati o sbloccati 713 manoscritti, 405 disegni, 1.998 incisioni e 42 edizioni. Infine, dopo che per lungo tempo era stato necessario riporre in ambienti inadatti i libri che man mano affluivano alla biblioteca, nel giugno 1972 la nuova sede fu completata. Nel maggio 1973 i manoscritti vennero elencati, imballati e trasportati nell’attuale deposito; anche il laboratorio di restauro fu alloggiato nella nuova sede, che aprì al pubblico il 15 ottobre del 1973.

Per quanto attiene ai restauri delle carte ebraiche ad oggi sono stati restaurati tutti i frammenti sui quali era possibile intervenire. Alcune cc. restaurate nell’ultimo periodo (anni Duemila) facevano parte di codici in gran parte già restaurati da decenni, a cui erano state ricondotte soltanto da identificazioni effettuate in tempi più recenti.

I risultati dei restauri sono assai differenti a seconda dell’epoca dell’intervento: il progredire della tecnologia di restauro e, più in particolare, l’approfondirsi delle ricerche sui manoscritti bruciati della Biblioteca Nazionale hanno portato ad un miglioramento nella qualità degli interventi, percepibile sia per quanto attiene alle pagine cartacee sia soprattutto per quanto attiene a quelle pergamenacee.

Non si deve dimenticare che fra i codici restaurati si annoverano anche fogli semplicemente distaccati (l’agglutinamento delle carte dovuto al calore del fuoco aveva portato alla formazione di blocchi) e spianati: per questi manoscritti non sono previsti altri interventi e, del resto, le pagine spianate sono spesso di facile lettura.

Elenco dei manoscritti sopravvissuti all’incendio

A.IV.19_1 (Biblioteca Nazionale: manoscritti ebraici sopravvissuti all'incendio del 1904)

A.IV.19_1 (Biblioteca Nazionale: manoscritti ebraici sopravvissuti all’incendio del 1904)

L’elenco proposto, che comprende 14 campi, è una semplice inventariazione e non un catalogo dettagliato, che ad oggi esiste soltanto per i codici liturgici (C. Pilocane, Manoscritti ebraici liturgici della Biblioteca Nazionale di Torino Identificazione, ricomposizione e studio dei maḥzorim sopravvissuti all’incendio del 1904, Firenze, Olschki, 2011).

L’inventario dà conto, in un rapporto con i codici descritti nel catalogo compilato da Bernardino Peyron nel 1880 (Codices Hebraici manu exarati Regiae Bibliothecae quae in Taurinensi athenaeo asservatur, Romae-Taurini-Florentiae, Fratres Bocca, 1880), di quali codici sono sopravvissuti all’incendio e in quali condizioni. Per condizioni si intende principalmente quante carte si conservano ancora per ciascun codice e quanto queste sono mutile (con relativa perdita del testo), sbiadite, brunite, accartocciate. Si passa da casi in cui sopravvivono oltre il 90% delle carte o tutte le carte (39 codici) a casi in cui si contano meno di venti carte superstiti o financo una carta sola (14 codici). Un solo manoscritto conserva ancora la legatura originale. Alcuni codici sono di difficile lettura a causa delle condizioni dell’inchiostro o del supporto scrittorio, in alcuni casi danneggiati in modo irreparabile durante l’incendio e dunque solo parzialmente sanati dai restauri, in altri casi danneggiati dai primi e ancora sperimentali interventi di restauro (che talora portarono ad una sorta di vetrificazione dei fogli, rendendoli trasparenti).

Il “titolo o indicazione del contenuto” del codice, indicato schematicamente, è preso dal catalogo Peyron e si riferisce al testo quando esso era completo; si annotano dunque i titoli di tutte le opere che il volume in origine comprendeva, anche quando queste sono andate del tutto perdute. In genere non vi sono ulteriori informazioni aggiunte alla descrizione che Peyron aveva dato del contenuto del manoscritto, fatto salvo il caso dei maḥzorim, i formulari liturgici, per i quali si indica a quali festività sono dedicati (fra parentesi quadre le sezioni liturgiche non più testimoniate nelle carte superstiti).

L’autore (o gli autori quando si tratta di un’opera miscellanea) sono indicati in un campo a parte, dove si registrano anche i nomi di eventuali traduttori.